La Chitridiomicosi e il declino degli
Anfibi
(a cura di G. Stagni e R. Dall'Olio)
La chitridiomicosi è considerata, assieme alle
infezioni di natura virale (Iridovirus, Chloriridovirus, Ranavirus)
uno dei più importanti fattori di natura patologica in grado di spiegare i
fenomeni di mortalità in massa di intere popolazioni di Anfibi osservati negli
ultimi decenni in varie aree geografiche. Anche il declino di intere specie può
essere in diversi casi ricondotto all'incidenza di queste forme patologiche.
Numerose sono le ipotesi formulate per spiegare
l'apparente aumento di recettività degli Anfibi alle patologie infettive degli
ultimi decenni.
L'azione combinata di vari fattori (variazioni climatiche, UV-B, pH,
inquinamenti, fattori biotici) potrebbe aver influito sulla risposta immunitaria
degli Anfibi rendendoli più esposti all'azione degli agenti patogeni. Allo
stesso tempo è possibile che tra i microrganismi non patogeni si siano
sviluppate forme patogene, o che queste abbiano aumentato la loro virulenza e la
loro diffusione nell'ambiente naturale (SCOCCIANTI, 2001).
La chitridiomicosi è un'infezione sostenuta da miceti appartenenti al phylum
Chytridiomycota, ordine Chytrididiales.
Si tratta di funghi ubiquitari, che sono stati ritrovati in ambienti acquatici e
nel suolo umido. In prevalenza sono organismi saprotrofi, che degradano
cellulosa, chitina e cheratina.
Le forme parassite infettano protisti, piante, invertebrati e, tra i vertebrati,
unicamente gli Anfibi.
L'infezione da Batrachochytrium dendrobatidis avviene a opera di zoospore
flagellate, solo attraverso il mezzo acquatico. È stato dimostrato che le
zoospore possono sopravvivere a lungo (fino a 3-4 settimane) in acqua di
rubinetto o deionizzata, e che in natura possono infettare gli anfibi anche 7
settimane dopo la loro immissione in acqua (JOHNSON & SPEARE, 2003). Non si
ritiene che il fungo abbia forme di resistenza all'asciutto.
Gli Anfibi vengono colpiti da metamorfosati a livello del sistema tegumentario:
i sintomi più evidenti sono a carico dell'epidermide e risultano costituiti da
una muta anomala, accompagnata talora da ulcere, iperemia e piccole emorragie.
L'esito letale viene attribuito alla reazione iperplastica dell'epidermide e
alle sue conseguenze su respirazione e osmoregolazione cutanee, ma anche
all'azione sistemica di tossine prodotte dal fungo.
Le larve degli Anfibi (girini), non possedendo uno strato corneo
dell'epidermide, si infettano solo nelle parti boccali cheratinizzate e in modo
asintomatico. Le uova non sono soggette all'infezione.
Un'emergenza globale
Le prime segnalazioni dell'infezione da Batrachochytrium
dendrobatidis a carico degli Anfibi sono molto recenti, risalendo alla fine
degli anni '90. I primi casi documentati si riferiscono a esemplari di Rana
pipiens raccolti nel 1974 in Nord America e a esemplari di varie specie
raccolti a partire dal 1978 in Australia.
Circa un centinaio di specie appartenenti a 14 famiglie di Urodeli e Anuri
risultano attualmente colpite da questa infezione in America, Europa, Africa,
Australia e Oceania. Circa la metà delle specie colpite si trova in Australia.
In Europa l'infezione è segnalata dal 2000 in Germania, soprattutto in specie
esotiche di Dendrobatidi e Ilidi importate dal Sud America, ma anche in
popolazioni naturali di Rana arvalis.
Sempre nel 2000 l'infezione è stata segnalata anche in Spagna, in popolazioni
naturali di Alytes obstetricans (SPEARE & BERGER, 2000).
È indubbio che la diffusione a livello globale dell'infezione, che si espande
in media a una velocità di 100 km all'anno, sia principalmente dovuta alle
traslocazioni e agli allevamenti di numerose specie di Anfibi operati a fini
commerciali.
La prima segnalazione di chitridiomicosi per l'Italia risale al giugno 2002, in
occasione del IV Congresso Nazionale di Erpetologia organizzato dalla SHI a
Ercolano (NA) (STAGNI et al., 2004).
È stata successivamente pubblicata una seconda segnalazione relativa ad una
popolazione di Rane verdi del Lago Trasimeno (PG) (SIMONCELLI et al.
2005).
I primi casi osservati in Italia
I primi casi di infezione da Batrachochytrium
dendrobatidis in anfibi italiani sono stati diagnosticati nell'estate del
2001 su esemplari di Ululone appenninico (Bombina pachypus) provenienti
da popolazioni del territorio collinare della provincia di Bologna. Le
osservazioni dell'infezione sono avvenute nel corso delle attività di
conservazione e captive breeding effettuate dal Centro Anfibi di Pianoro.
L'infezione è stata osservata esclusivamente in individui raccolti dopo la
metamorfosi nelle stazioni della collina bolognese.
Gli individui raccolti dopo la metamorfosi in tali stazioni sono stati
alloggiati in vaschette di materiale plastico acquistate per l'occasione, quindi
mai venute a contatto in precedenza con altri anfibi.
Entro una o al massimo due settimane dalla raccolta, tali individui hanno
manifestato una sintomatologia caratteristica, contraddistinta da desquamazione
dell'epidermide, difficoltà locomotorie, tendenza a portarsi all'asciutto,
anoressia, a volte iperemia a livello delle dita. Il decorso è risultato sempre
letale nell'arco di pochi giorni dalla comparsa dei primi sintomi.
Per contro, si è verificato che altri neometamorfosati raccolti a più riprese
in alcune stazioni dell'Appennino tosco-romagnolo negli anni tra il 2000 e il
2002 e allevati allo stesso modo, ma separatamente dai primi, non hanno in
nessun caso manifestato il problema.
Nel 2002, inoltre, sono state raccolte alcune decine di uova nelle stazioni
bolognesi: i metamorfosati da esse ottenuti sono stati allevati con successo,
senza alcuna mortalità, per circa un anno, fino al loro rilascio nelle stazioni
di provenienza delle uova.
Tale dato ben si accorda con l'ipotesi della presenza dell'infezione nelle
stazioni bolognesi e non in quelle romagnole, avvalorata altresì dai risultati
del monitoraggio, che hanno evidenziato un preoccupante declino delle prime
(costituite da pochissimi individui adulti e caratterizzate da una totale
assenza di giovani e subadulti), contrapposto a un buono stato delle seconde, in
cui sono stati censiti alcune decine di adulti e numerosi giovani di tutte le
classi di età.
La suddetta ipotesi è successivamente stata confermata attraverso test
diagnostici condotti su neometamorfosati raccolti, in qualche caso già con
evidenti sintomi di infezione o appena morti, nelle stazioni della collina
bolognese. Tali test hanno confermato la presenza dell'infezione negli esemplari
raccolti in natura.
In allevamento l'infezione è risultata quasi sempre letale per i
neometamorfosati, mentre tra gli individui adulti e subadulti sono stati
registrati casi sporadici, di cui solo alcuni con esito letale.
In natura, solo i neometamorfosati appaiono colpiti e decimati dall'infezione,
mentre i pochi adulti presenti nelle stazioni infette sono risultati
relativamente longevi. Il riconoscimento individuale di aduti e subadulti è
stato ottenuto in modo certo mediante schedatura di ciascun esemplare
accompagnata dalla fotografia del pattern ventrale.
Tecniche diagnostiche utilizzate
La diagnosi dei casi di chitridiomicosi osservati nelle stazioni del
bolognese e presso il Centro Anfibi è stata eseguita seguendo tre tecniche.
Caratterizzazione genica
Come primo metodo di analisi si è scelto di utilizzare tecniche normalmente
adottate in biologia molecolare, in particolare sfruttando la Reazione a Catena
della Polimerasi (PCR) come strumento diagnostico.
Dopo l'estrazione del DNA totale dell'individuo, è possibile rilevare la
presenza dell'organismo patogeno mediante l'utilizzo di sequenze
oligonucleotidiche (primers) altamente specifiche (il principio è lo
stesso adottato nelle analisi degli OGM).
Nel database genetico di riferimento (GenBank http://www.ncbi.nih.gov/Genbank/index.html)
è disponibile una sequenza (A.N. AH009052) relativa ad un tratto del gene 18S
ribosomal RNA di Batrachochytrium dendrobatidis. L'analisi è stata
quindi effettuata su questo tratto di gene e la prima sequenza prodotta è stata
inserita nello stesso database (A.N. AY079001).
Caratterizzazione istologica
Un altro test per diagnosticare la presenza dell'infezione micotica da Batrachochytrium
dendrobatidis sfrutta le tecniche di istologia classica, così come
descritte da BERGER, SPEARE & KENT (1999). Le foto riportano sezioni di epidermide, dove sono visibili zoosporangi di
Batrachochytrium dendrobatidis con aspetto vescicole settate (a sinistra) e
con il tubo di fuoriuscita delle zoospore (a destra).
Caratterizzazione immunoistochimica
Nel corso del 2003 i colleghi ricercatori del CSIRO Australian Animal Health
Laboratory (http://www.csiro.au/)
hanno prodotto anticorpi policlonali per test di immunolocalizzazione (la
colorazione avviene mediante reazione di immunoperossidasi).
In collaborazione con l'Università di Perugia sono stati analizzati mediante
questa tecnica, campioni di animali deceduti nel corso dell'anno 2003.
Nella foto a sinistra la colorazione marrone evidenza in modo inequivocabile
l'avvenuta reazione, che corrisponde alla presenza dell'infezione. A destra il
controllo risultato negativo.
Sempre sfruttando questa metodica, si sta attualmente testando l'efficacia di
diverse sostanze con potere antimicotico.
Trattamenti terapeutici sperimentati
Gli esemplari in allevamento presso il Centro Anfibi colpiti dall'infezione
sono stati trattati con buoni risultati con un antimicotico reperibile in
commercio come curativo per le micosi nei pesci d'acquario e con itraconazolo in
sospensione allo 0,01% (preparazione commerciale: Sporanox, Janssen-Cilag spa).
Di questo potente antimicotico ad ampio spettro, la cui efficacia era già stata
segnalata da NICHOLS e LAMIRANDE (2001), si stanno attualmente sperimentando gli
effetti su gruppi di neometamorfosati di Bombina pachypus risultati
positivi ai test diagnostici.
Non è al momento ipotizzabile la possibilità di effettuare trattamenti in
ambiente naturale.
Misure profilattiche da adottare
Onde prevenire i rischi di una possibile diffusione sul territorio della
chitridiomicosi, è necessaria l'adozione di adeguate misure di profilassi. Tali
misure corrispondono a quelle indicate nel DAPTF (Declining Amphibian
Populations Task Force) Fieldwork Code of Practice.
Nello specifico possono essere ricordate le seguenti norme di comportamento:
-
Pulizia e disinfezione sistematica delle attrezzature utilizzate sul campo
(scarpe, stivali, retini, contenitori). Meglio ancora sarebbe l'utilizzo di
materiali diversi per ogni sito visitato, in particolare qualora si tratti
di siti molto distanti tra loro, abitati da specie diverse o da popolazioni
di specie rare, minacciate o isolate tra loro.
-
Disinfezione degli strumenti e delle attrezzature di laboratorio che
vengono utilizzati o messi a contatti con esemplari di Anfibi.
-
Per la disinfezione sono indicati l'ipoclorito di sodio (Amuchina al 5%) e
l'alcool etilico. È necessario lasciare immersi gli attrezzi da
disinfettare per almeno 30 minuti.
-
Ridurre al minimo indispensabile il maneggiamento di animali durante le
attività di ricerca o conservazione, mantenendo bagnata l'epidermide degli
esemplari.
-
In caso di raccolta di esemplari a scopo di studio o conservazione,
alloggiare gli stessi in contenitori separati in base alla loro provenienza,
evitando di alloggiare molti esemplari in uno stesso contenitore.
-
Evitare ogni traslocazione di esemplari da una località all'altra.
-
Lavare accuratamente le mani al termine del lavoro sul campo o utilizzare
guanti monouso.
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